sabato 30 luglio 2011

tempo e immagini: un rapporto strutturale 2

Ho rivisto il post precedente e ho pensato di aggiungere alcune cose che mi erano sfuggite oltre ad aggiungere una nuova parte,.... ora penso che sia completo. In caso di ulteriori aggiunte le editerò separatamente, buona lettura.






Tempo e immagini: un rapporto strutturale



di
Giulio Peranzoni






La realtà è un continuo fluire, come già gli antichi greci ci hanno insegnato nel loro famoso
postulato "panta rei". In effetti ogni momento della nostra realtà è differente sia da quello
precedente che da quello futuro. Un continuo rimescolarsi e ridefinirsi di aggregati di
atomi. Noi stessi non siamo gli stessi di alcuni secondi fa. Di fronte a questo continuo
cambiamento però, noi umani abbiamo inventato un mezzo per fermare il flusso temporale
ricombinante della materia in quel dato momento: sono le immagini. La fotografia, per
esempio, la si può interpretare come un fissaggio su carta dei segnali luminosi che la
materia emette in presenza di una fonte di luce in un determinato momento.


Spingendosi ancora più a fondo nella riflessione, direi che un'immagine è un rallentamento
del tempo di un fluire di agglomerati di atomi per mezzo di altri agglomerati di atomi con la
sembianza di un supporto.
Una fotografia registra un dato momento del fluire della materia su un supporto, che in
ogni caso è costituito sempre di materia che a sua volta cambia (deterioramento del
materiale). Questo suo cambiamento però è molto più lento e non in accordo con il fluire
reale, in confronto la velocità dello scorrere della realtà è molto diverso. La velocità
dell'attimo presente è fulminea, il deterioramento di una immagine fotografata è molto più
graduale.


L'uomo ha sempre cercato di fermare il tempo con le immagini, un esigenza dovuta alla
naturale paura della morte o meglio ancora la paura di non essere ricordati, di essere
"resettati". I monumenti colossali delle figure dei faraoni e di tutti i potenti della storia sono
il tentativo di fermare il loro tempo. Con un trucco, appunto, hanno cercato di sopravvivere
al loro decadimento biologico. Con le loro immagini registrate su una materia più lenta
nel cambiare e dunque nello sparire nel non essere (la pietra, il marmo, il bronzo o il
colore sulla tela), hanno provato a sconfiggere il tempo che inesorabilmente stava per
cancellarli, è l'ancestrale istinto di ogni essere vivente, l'istinto di sopravvivenza.


Con l'invenzione della macchina fotografica, la registrazione della realtà è diventata
meccanica e quindi molto più facile da ottenere. Simbolico è il popolarsi di immagini
fotografate nei cimiteri della nostra era moderna. Prima erano solo i potenti che potevano
registrare la loro immagine nel marmo o nel bronzo, ora chiunque può fermare la propria
immagine e dunque di essere ricordato prima di polverizzarsi.
Ma la differenza sottile tra una immagine che ferma un determinato momento eseguita
con una macchina e un'immagine disegnata è proprio la mente umana stessa. Una
immagine fotografata è una registrazione meccanica, una disegnata è l'interpretazione
della realtà che il cervello dell'autore elabora e che registra su un supporto grazie alla sua
capacità manuale.


Dunque la mente è un filtro della realtà percepita in quel dato momento e che nel caso
venga registrato su un supporto prende l'aspetto di una immagine.
Un' immagine disegnata è un rallentamento del tempo registrata su un supporto. Il nostro
cervello percepisce continuamente gli stimoli esterni della realtà e li traduce in impulsi
neuronali, li interpreta e li memorizza. Se un dato momento della realtà può creare
emozioni particolari, alcuni soggetti con particolari doti manuali acquisite nel tempo,
possono decidere oltre che a memorizzarli in se stessi, di registrarli su supporti fisici. È
così che nasce l'esigenza di creare un'immagine.


L'abilità di produrre immagini è iniziata appunto nel volere 'fermare' gli stimoli esterni della
realtà. Successivamente raffinando sia la mente che la tecnica di riproduzione delle
immagini, l'uomo ha anche cercato di fermare i propri pensieri 'interni', i propri sogni, la
realtà astratta della propria mente, la sua fantasia.
Ma l'aspetto più interessante di tutto questo discorso è il fattore tempo imprigionato nel
supporto usato per fermare la realtà. Fino ad oggi infatti, ogni supporto per un'immagine
usato dall'uomo per fermare, anzi per rallentare il tempo della realtà in quel dato momento,
ha, a sua volta, il destino di fluire verso il non essere, e cioè il suo degrado fisico. Tutta la
materia fisica è in continuo cambiamento, niente è immutabile, tutto scorre, appunto
"panta rei" .


Come accennavo all'inizio, creando un immagine non si ferma il tempo di quel momento
su un supporto materico ma soltanto lo si rallenta, unendolo al deperimento materiale di
quel dato supporto. Ora, con la realtà digitale, il paradigma millenario delle immagini
create dall'uomo cambia, e con esso anche il fattore del tempo incorporato ad esse.
Un immagine digitale non ha più un supporto materico unico per esprimersi e ripetere quel
dato momento. Un immagine digitale non è più ancorata alla materia ma è di fatto tradotta
in un algoritmo matematico, riproducibile in ogni momento su macchine sostituibili nel
tempo. Un algoritmo non deperisce, ha lo stesso tempo dell'esistenza dell'umanità che è in
grado di leggerlo. Forse si può azzardare a dire che finalmente il tempo della realtà
registrato in un immagine coincide ora con il tempo della esistenza dell'umanità. È un
aspetto della vecchia questione ontologica: l'esistenza dell'universo esiste grazie
all'esistenza dell'umanità che la può comprendere?


Comunque questa sua eternità è legata al suo collocamento nello spazio. In effetti
digitalizzando un immagine non solo la si libera dal tempo di deterioramento del suo
supporto e dunque dal rallentamento temporale in cui è collocata ma anche dal suo
materialismo.


Un immagine digitale ferma il tempo diventando eterna e contemporaneamente si astrae.
La produzione di un immagine digitale è il risultato di diversi passaggi che portano alla
formulazione di un algoritmo matematico in grado di riprodurla in ogni momento, in
qualunque spazio e in brevissimo tempo. L'utensile usato non è più un pennello che
utilizza materia colorata, ma quel magico oggetto (mouse, penna ottica) che traduce il
gesto del suo creatore, la sua manualità in un algoritmo. Quando la mente umana decide
di produrre un immagine digitale catturando la realtà con la propria percezione o
elaborandola all'interno dei propri neuroni (in questo caso una immagine di pura fantasia),
il suo autore utilizzando come nuovo mezzo di produzione la tecnologia digitale, traduce
direttamente i suoi stimoli mentali in un algoritmo astratto e senza tempo.
Ma la sua esistenza, anche se astratta, dipende in ogni caso dal luogo in cui si può
trovarla e ripeterla.


Il teorema di Pitagora non sarebbe giunto fino a noi e dunque conosciuto e applicato, se
non fosse stato tramandato prima oralmente, e di fatto memorizzato nelle menti umane
per diverse generazioni, e poi scritto su supporti cartacei numerose volte. Il suo aspetto
matematico permette di conoscerlo e ripeterlo come il suo autore l'ha creato la prima volta.
Non è unico come un opera d'arte, è ripetibile innumerevoli volte, ma questo è stato
possibile perché, oltre al sua natura di enunciato, è stato scritto e collocato in qualche
maniera su un supporto materico.
Anche un immagine diventando digitale ora non è più un opera unica, e una volta tradotta
in un algoritmo matematico è ripetibile ogni volta su qualsiasi dispositivo digitale. Ma,
appunto come il teorema di Pitagora, da qualche parte va copiata per poterla mettere in
funzione.


Questo ci porta al grande problema della sua collocazione e reperibilità. Un problema di
fondamentale importanza nel nuovo paradigma digitale: l'archiviazione e dunque la
reperibilità dei dati.
Fin dall'inizio dell'era dei computer uno dei grandi problemi da risolvere, oltre alla velocità
di calcolo è stato la capacità di memoria per l'archiviazione dei files. Ogni nuova
generazione di computer era caratterizzata dalla scoperta di nuovi modelli in cui la
velocità, la miniaturizzazione e la capacità di memoria era migliorata dalle versioni
precedenti. L'industria informatica ha cercato da subito di trovare soluzioni valide per
archiviare i propri risultati: floppy disk, cd-rom, cd, dvd, HD esterni, server e ultimamente il
cloud-computing, la nuova soluzione per archiviare ogni tipologia di documento digitale.
Con questa ultima soluzione si ripropone la stessa situazione dell'immagine digitalizzata e
cioè la sua smaterializzazione: anche il contenitore di immagini astratte si astrae a sua
volta. Non abbiamo più oggetti fisici, materici su cui trovare gli algoritmi che ci permettono
di ricostruire le immagini memorizzate, ma solo una abnorme nuvola di file contenuta in
remoti nodi della rete. Di fisico ci rimane una magica "finestra" (monitor, tablet, pc) su cui
affacciarsi e poter vedere (e un giorno forse entrare) i nostri elaborati.
Ma quali garanzie abbiamo che i nostri preziosi algoritmi non vengano dispersi? L'era del
digitale è appena iniziata da qualche decennio, e miliardi di immagini sono già state
editate in rete, fino a quando la capacità di memoria potrà contenerle e per quanto tempo
le potrebbe tenere? E ancora, se un immagine non viene letta per anni, è ancora presente
o un filtro censorio cancella i file che per lungo tempo non vengono attivati? E in questo
caso chi è il censore che decide quali immagini possano rimanere nella storia e quali
invece no?


Se la logica di salvare i file è la stessa dei diversi motori di ricerca, e cioè che il
documento più "cliccato" ha più visibilità, si corre il rischio di salvare nel tempo le immagini
più commerciali e popolari. Un Van Ghog digitale non avrebbe nessuna possibilità di
essere conosciuto....

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